Fuoco d’artificio

 

 

Quando nacque, i genitori vollero chiamare il proprio figlio Celeste, il cui significato era “venuto dal cielo, abitante del cielo”. Mai nome fu così azzeccato, perché, quando Celeste

raggiunse la maggiore età, andò a lavorare in una piccola fabbrica che produceva fuochi d’artificio. Lui, Celeste, poteva così abitare il cielo illuminandolo con i fuochi che costruiva. Quel lavoro gli piaceva così tanto che era riuscito a farsi una piccola officina tutta per sé, dove costruiva i suoi fuochi d’artificio che poi faceva esplodere durante la festa patronale del suo paese e di quelli vicini. Celeste era diventato bravo nel suo lavoro, era diventato a tutti gli effetti un pirotecnico. E lui di fuochi d’artificio ne fabbricava di tutti i tipi: quelli che scoppiavano in cielo facendo un fiore gigantesco, oppure quelli che vibravano i mille luci prima di cadere a terra e spegnersi, e anche quelli che, arrivati in cielo, si separavano e facevano ombrelli luminosi, o quelli che, esplodendo, tenevano a naso in su gli spettatori. Bisognava vederlo, Celeste il pirotecnico, quando faceva brillare i suoi fuochi: sembrava un maestro d’orchestra di luce, muoveva le mani in aria, a volte saltellava entusiasta come un bambino danzava proprio come un bambino. Ma a Celeste c’era una cosa che metteva malinconia: era quando un fuoco d’artificio esplodeva facendo una meraviglia di luce e poi si spegneva cadendo per terra in frammenti luminosi che scendevano lentamente. Ecco, questo destava in lui una vera malinconia, e poi quel silenzio dopo il botto era come un pianto del cielo misterioso, comico, drammatico. L’esistenza di Celeste passò così, tra un fuoco d’artificio e l’altro. Nell’ultimo periodo della sua vita, trascorreva molto tempo nel suo laboratorio a costruire, come tutti dicevano, un fuoco d’artificio inventato da lui. Celeste era diventato vecchio e sapeva che doveva andarsene in cielo, da dove era venuto, come diceva il suo nome “abitante del cielo”. Celeste morì per incanto, per gioco, per viaggiare. Lasciò in eredità un fuoco d’artificio e un foglietto con su scritto: “Questa è la mia eredità, fatelo esplodere. Un saluto e boom a tutti”. I parenti lo presero per un pazzo: cosa se ne potevano fare di una roba che scoppiava in cielo e poi spariva? Nessuno ebbe il coraggio di farlo esplodere, tranne Giacomino, il nipote di Celeste, un ragazzino di quindici anni che andava spesso a spiare nel laboratorio. Giacomino era fiero del suo zio pirotecnico e diceva spesso agli amici: ho uno zio mago, illumina il cielo. Una sera Giacomino prese l’eredità dello zio, andò in un prato lontano di casa e, senza pericolo, diede fuoco all’ultimo fuoco d’artificio che, prima di morire, aveva costruito. Dapprima non successe niente, poi, nel silenzio della sera, una luce immensa apparve in cielo: era il fuoco d’artificio che, esplodendo, aveva sventagliato migliaia di piccoli fuochi a forma di stelle lontane e poi la magia della magia, il fuoco non si spense per cadere malinconicamente a terra, no, rimase in cielo, luminoso, a costruire un universo fra gli universi. Era lì, fermo, immobile, un universo per Giacomino, l’unico che aveva creduto allo zio mago. Quel fuoco d’artificio-universo era lì a ricordare che forse siamo tutti piccoli universi di luce. Ora Celeste abitava davvero il cielo, com’era scritto nel suo nome. Giacomino sorrise e salutò lo zio mago, guardando il cielo.

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