Fratello Silvano

 

 

In quel convento tutti si chiamavano fra di loro “fratelli”, un po’ per obbligo, un po’ per fede. Chiamarsi tutti fratelli qualche piccolo problema lo creava; ad esempio, quando nel grande porticato del convento, da qualche finestrone appariva il cuoco, urlando: “Fratello, il brodino è pronto“, tutti si giravano con occhi languidi al pensiero di immergere il cucchiaio in quella brodaglia celeste. A quale fratello il cuoco facesse riferimento per offrire quel piatto indigesto non si capiva. Allora, di comune accordo, durante una riunione silenziosa, decisero, per evitare equivoci, di mettere insieme a “fratello” anche un nome, ma non quello vero, uno inventato, perché dicevano che cambiare nome volesse dire donare la propria identità terrena a Dio.

Quindi, via con la fantasia: chi scelse fratello Giova, chi fratello Theo, oppure fratello Lello; il più originale si fece chiamare “fratello trattore”, perché amava da piccolo far finta di guidare il trattore facendo il verso con la bocca. Ma c’era un fratello che scelse il nome di Silvano, perché era intimamente spinto a cercare Dio nella selva, nei boschi. Era un segreto che lui aveva nascosto nell’animo più profondo, perché per tutti i fratelli del convento Dio era in alto, non in basso e non certamente nel bosco, abitato così com’era da animali feroci e spiriti maligni, spiriti, a dirla tutta, pagani. Nel convento si pregava sempre, ad ogni ora del giorno. Ci si svegliava di notte si pregava, al mattino presto si pregava, prima di mangiare, prima di dormire, sempre si pregava, quasi a pensare di ottenere l’attenzione e l’ascolto di Dio in ogni momento. Fratello Silvano pensava che forse Dio, a quelle preghiere così ostinate, a quei canti monotonali, cogliesse l’occasione per riposarsi, accovacciarsi fra le nuvole e le stelle e forse sbuffava, dicendosi: “ma che cosa vogliono da me? Io ho già creato il cielo, la terra e tutte le cose visibili e invisibili, potrò riposarmi? Ne avrò il diritto!”

Una notte fratello Silvano, di nascosto senza farsi vedere, uscì dal convento e si infilò in un bosco che era lì accanto, quasi una voce lo chiamasse da lì dentro, fra gli alberi nella boscaglia. Faceva un freddo tremendo e c’era aria di pioggia, nubi nere si intravedevano fra i rami di quegli alberi antichi e altissimi. Quella voce che chiamava fratello Silvano arrivava da una tana; lui, seguendo la voce, si infilò in un buco sotto un albero: era la tana di una volpe, che, prima impaurita, poi serena, si fece accarezzare da fratello Silvano. Iniziò a piovere con tuoni e fulmini. La volpe e fratello Silvano nella tana erano lì a guardare la pioggia in silenzio, come se quella tana fosse la sua celletta che aveva nel convento e allora gli venne in mente una frase di Gesù, rivolto a uno scriba che voleva seguirlo: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo“. Lui era lì ospite di quella volpe che lo aveva chiamato.

Quello era il momento in cui nel convento si pregava, ma quale preghiera si poteva fare insieme a quella volpe, nel bosco, con quella pioggia, con quei tuoni terribili e fulmini? Quale preghiera, quale canto poteva far piacere a Dio per tenerlo sveglio e attento alle cose umane?

La volpe guardò negli occhi fratello Silvano  e lui capì che quello sguardo era una preghiera, che quel temporale era una preghiera, che tutto attorno erano preghiere mai dette nel convento.

Un fulmine colpì un vecchio albero, che prese fuoco. La pioggia terminò, il fuoco bruciò e fece cuocere la terra che aveva attorno; fratello Silvano e la volpe si avvicinarono a quella preghiera bruciata.

Silvano, prese un pugno di terra cotta dal fuoco del fulmine e si avviò verso il convento; la volpe ritornò misteriosa nella sua tana. Quando Silvano attraversò il porticato del convento, tutti i fratelli lo attendevano in silenzio. Silvano, con in mano quella terra cotta dal fulmine, si avviò verso la sua celletta.

Il piccolo fratello Silvano aveva capito che poteva fare lui come Dio: prendere la terra, modellarla  e cuocerla con il fuoco; aveva capito che quella era la preghiera che lui voleva dire, senza una ragione e senza chiedere nulla. Una preghiera fatta con le mani e con il pensiero. Uscì dal convento e si mise con la terra e il fuoco a fare ciotole di terracotta, che, come preghiere, donava alla gente e poi vasi per bere e vasi per metterci dentro una rosa, che forse, insieme alla terra e al fuoco, era la preghiera più bella.

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